In attesa di approfondire i molti temi proposti da Amartya Sen nel suo libro Identità e violenza (la riunione è giovedì 16 novembre alle 21 in biblioteca a Cologno Monzese), due osservazioni collegate.
La prima riguarda la relazione stretta – che Sen sottolinea con forza – fra la descrizione (falsa o più o meno vicina alla realtà) delle identità e la pratica politica.
Descrivere una società come come se fosse divisa in gruppi omogenei e pressoché impermeabili lungo linee etniche o religiose, oltre che una rappresentazione falsata della realtà è anche la premessa necessaria a ogni tipo di azione politica settaria e che intenda creare divisioni e conflitti, quasi sempre violenti; sopraffazione e, in alcuni casi, addirittura vere e proprie stragi.
Forse la considerazione appare banale.
Eppure troppe volte di fronte a tragedie di scontri violenti o di stragi, o anche in situazioni meno gravi come quelle che vedono movimenti politici estremisti e settari guadagnare popolarità – per esempio il Fronte nazionale in Francia o la Lega Nord in Italia – una parte dell’opinione pubblica sembra dimenticare come la contrapposizione, la divisione di parti della popolazione lungo confini invalicabili, sia il risultato di un’azione politica deliberata.
Si preferisce invece credere a entità indipendenti dalle scelte razionali: presunte tradizioni, le culture, la storia; entità che sembrano suggerire l’impossibilità di altri esiti da quelli dello scontro o della divisione.
Il libro di Sen è pieno di esempi di queste divisioni estremizzate, a volte inventate: anche perché in alcuni casi basta classificare per escludere, e poi per sopprimere, trovando presunte “giustificazioni” nella tradizione, appunto, o nella cultura, o nella religione o nella storia.
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La seconda questione, collegata alla prima, è che troppo spesso anche chi si oppone alle politiche di divisione e contrapposizione settaria, che assolutizzano una identità soltanto (etinica o religiosa o culturale o politica), finisce per cadere nella trappola teorica e descrittiva degli estremisti, accettando come rilevante una sola identità, difendendo magari eroicamente quella identità dagli attacchi, ma rinunciando all’unica possibile opzione democratica e di libertà: le identità gli individui se le devono scegliere, e devono avere la possibilità di avere più facce, più pieghe, più caratteri, non una soltanto. La Gran Bretagna che delega al clero mussulmano la rappresentanza dei cittadini di fede islamica è il risultato dell’accettazione di questo modello di descrizione della società.
La stessa “difesa” del cosiddetto “diritto” a conservare la tradizione culturale (l’oppressione delle donne della famiglia, la scelta delle compagnie giuste per i figli, i libri che si possono leggere, i film che si possono vedere) che in buona fede i difensori della società multiculturale perseguono è il risultato del prevalere di questa maschera teorica: l’identità culturale monolitica imposta (raramente scelta consapevolmente) schiaccia quei cittadini, che finiscono col subire la tradizione e la cultura, senza che possano esprimere la propria identità molteplice.
E coloro che democraticamente pensano di difenderli, finiscono con l’avallare il pensiero e la pratica dei loro oppressori.


Torino, Fiera del Libro

Originally uploaded by halighalie.

Anche quest’anno, per il quinto di fila, non siamo riusciti a resistere alla tentazione della Fiera del Libro di Torino.
Anche quest’anno, ci sono andata due giorni, sabato per piacere, lunedì per lavoro.
Ecco un po’ di impressioni sparse.
Innanzitutto, gran ressa. Buon segno, per l’editoria italiana? Non so, forse sì, speriamo, anche se vedendo dove era concentrata la maggior parte della gente, non so. Un esempio fra tutti, stand della Feltrinelli: pile sterminate e in continuo rifornimento di Moccia, *Tre metri sopra al cielo* e *Ho voglia di te*. Ragazzine in coda allo stand della Fabbri per Melissa P. Mah.
Vuoto nei numerossimi stand di Regioni e Comuni, ma mi vien da domandare cosa ci stessero a fare.
Ogni anni cerco di fare il solito fioretto: compro solo libri veramente indispensabili: scontatissimi, o introvabili.
Dopo un’ora e mezza, ne avevo già comprati tre, quando Andrea ha sottolineato la mia media di acquisto, e mi son dovuta contenere.
Comunque, tutti acquisti giustificati:
*Equatore*, di Miguel Sousa Tavares, ed. Cavallo di Ferro: introvabile, chi l’ha mai vista in libreria questa casa editrice? E poi, Portogallo Paese ospite, io amante del Portogallo, glielo dovevo.
*Una famiglia americana*, di Joyce Carol Oates, Marco Tropea Editore: introvabile. L’ho visto una volta alla Feltrinelli, poi son quasi sicura che non ci fosse più, io amante della Oates. Glielo dovevo.
*The jasmine isle*, di Ioanna Karystiani, Europa Editions: avventura americana della grande casa editrice e/o (ne parlerò), scontato causa conoscenza dellespositore.
Insomma, converrete che erano tutti indispensabili.
Ogni anno, poi, cado nell’acquisto compulsivo del libro che mi chiama come se fosse indispensabile (appunto), e poi giace sul comodino per anni. Nel 2003 è stato *Underworld* di DeLillo, nel 2005 *Infinite jest* di David Foster Wallace, nel 2004 non ricordo, ma sicuramente ci sarà stato. Quest’anno temo che sia *Equatore*.
Ci sono rimasta un po’ male, come ogni anno, che non ci fossero grandi offerte e sconti fiera. Solo Andrea ha trovato un Meridiano Zero del vecchio cataloo al 50% (Robert Wilson, bellissimo in *Una piccola morte a Lisbona*). Lunedì, però, molti stand avevano il cartello 20% di sconto, ma non ho potuto usifruirne.
Come ogni anno, poi, sembra che a ogni stand che mi avvicino gli espositori tampinino solo me (mai Andrea). Stavo per cedere alla tentazione da Crocetti editore (autori greci, bellissimi, l’anno scorso ne ho preso uno stupendo), ma per fortuna hanno cercato di rifilarmi quello che avevo appena preso in inglese, e ho avuto la scusa.
Da ultimo, lunedì frotte di scolaresche, bambini anche piccoli, che bello.


Under Construction

Originally uploaded by Infinite Jeff.

Ho letto qualche giorno fa che finalmente è pronta la Morgan Library, la biblioteca che Renzo Piano ha disegnato e realizzato a New York.
Nell’intervista, Piano diceva che la sua idea era stata quella di costruire un luogo “che richiamasse la serenità, la calma, la meditazione che sono di casa in una biblioteca; ma senza dimenticare la vita caotica e frenetica di questa città”.
Dalle foto, mi sembra che sia perfettamente riuscito: una bella costruzione moderna, in vetro e acciaio (come dice Piano, i materiali industriali e più americani, che hanno fatto la storia degli USA), inserita nel contesto di palazzi neorinascimentali di Madison Avenue.
La biblioteca vera e propria, poi, è una piccola struttura in legno, che conserva l’importante collezione di manoscritti.
Ripensando alle biblioteche che frequento di solito, anche se l’abito non fa il monaco, devo ammettere che provo una serta invidia nei confronti di quei newyorkesi che potranno sfogliare e leggere libri lì dentro.

Mi è capitato fra le mani questo libro, Un gioco e un passatempo, di James Salter. La trama mi ha subito incurisita. Dopo averlo letto, devo dire che non mi ha fatta impazzire, ma forse non è molto il mio genere di romanzo, soprattutto in questo periodo in cui sono fissata con libri di scrittori americani, ambientati negli Stati Uniti.

Un gioco e un passatempo è sì scritto da un americano, ma è ambientato in Francia, nel paesino di Autun, in provincia. Lì due amici, due ragazzi, americani, vivono per un certo periodo. La storia è raccontata in prima persona da uno dei due, il narratore, che segue le vicende dell’amico, rimanendo però sempre in disparte, da osservatore delle vicende. Queste riguardano invece l’altro personaggio, Dean, un affascinante perditempo americano, che si innamora di una ragazza francese, Anne-Marie. Il romanzo è la storia della passione fra i due giovani.

I fatti veri e propri sono pochi (la narrazione è abbastanza lenta): gite in auto, cene al ristorante, fine settimana in squallidi alberghetti, e soprattutto tanto sesso fra i due protagonisti.

Il fatto che il tutto sia raccontato dall’amico, rende la narrazione interessante, con un punto di vista originale, un po’ voyeuristico.

A suo modo, è una bella storia di amore, comunque.

Il romanzo fra parte di una bella collana della BUR, Scrittori contemporanei original, giunta con questo al suo quarto titolo. Pubblica scrittori stranieri (finora un’irlandese, una franco-canadese, un olandese e un americano), mai tradotti prima in Italia. Qualche mese fa aveva riscosso molto successo di critica e di pubblico il primo romanzo della serie, La visitatrice, di Maeva Brennan, che però non ho ancora letto.

Sull’inserto culturale di sabato scorso della Repubblica c’era una racconto inedito dello scrittore Bjorn Larsson (di cui prometto di parlare a breve, perché merita), non molto originale, a mio vedere, ma che mi ha fatto riflettere.

Il racconto è incentrato sulla figura di un filologo di francese antico, deluso dalla scarissima considerazione che la sua materia ha in ambito accademico, che decide di far vedere al mondo quanto questa, invece, sia importante. Come? Scoprendo la vera storia del Sacro Graal. Il raccontino termina con la scoperta del vero manoscritto, che però lo studioso decide di lasciare nascosto.

Nelle poche righe del brano viene citato più volte Dan Brown e il suo Codice da Vinci. Il Sacro Graal, ormai, viene associato a lui??

Confesso di aver letto Il Codice da Vinci: dopo averlo criticato per partito preso, ho pensato che fosse più onesto avere delle basi per parlarne male. L’ho trovato terribile, una scrittura da film di Hollywood, un tono saccente veramente fastidioso, forse scritto per un pubblico che non ha mai sentito parlare di Leonardo da Vinci o del Louvre.

Anche banale, poi. Fra l’altro, non è neppure originale. Qualche anno prima era uscito Il cerchio si chiude, dello scrittore norvegese Egeland, edito in Italia da Bompiani. La trama non è molto diversa: un archeologo alle prese con un mistero che sconvolgerà il mondo: il Sacro Graal indica la discendenza umana di Gesù. La storia (e questa teoria) è affascinante, lo stile è coinvolgente, colto ma non fastidioso, spiritoso. Il protagonista, l’archeologo albino, è molto simpatico.

Per chiudere, entrambi i romanzi si sono comunque ispirati a un saggio: Il Santo Graal – Una catena di misteri lunga 2000 anni, di Baigent, Leigh, Lincoln, edito da Mondadori. Ce l’ho sul comodino…

A pochi giorni dall'uscita al cinema di Chiedi alla polvere, ho letto il romanzo di Fante da cui è tratto.

L'ho letto in inglese, in libreria avevo adocchiato una bellissima edizione del Bandini quartet, e non sono riuscita a resistere alla tentazione, spinta anche dalla frettolosa lettura dell'introduzione scritta da Charles Bukowsky, bellissima (dei romanzi di Fante dice che sono "written from the gut and the heart"). Comunque, lo consiglio vivamente in lingua originale.

Come ho già forse scrtto in precedenza per La confraternita dell'uva, trovo Fante uno scrittore geniale. Ho passato il tempo in cui leggevo i due libri con un sorriso costante sulle labbra, quando non si trasformava in una vera e propria risata.

Di Fante mi ha colpito la forte componente autobiografica che mi smebra pervada tutti i suoi libri. Solitamente, sono portata a cercare uno scrittore fra le righe delle sue opere, e quando lo trovo, è sempre una bella scoperta. In Fante questo aspetto è molto forte. Quando Bandini è immerso nella scrittura del suo primo romanzo, dice:

"To hell with that Hitler, this is more important than Hitler, this is about my book. It won't shake the world, it won't kill a soul, it won't fire a gun, ah, but you'll remember t to the day you die, you'll lie there breathing your lost, and you'll smile as you remember the book. The story of Vera Rivken, a slice out of life."

Mi sono piaciuti molto anche i brani in cui descrive la California ("the mighty sun, the eternal blue of the sky, and the streets full of sleek women you never will posses"), lui, italo-americano arrivato dal Colorado. In questi punti riesce a essere molto poetico e sincero, e commovente quando racconta la sua situazione di straniero.

Vedremo se il film riuscirà a essere all'altezza.

Per i nostri 5 anni insieme, il mio ragazzo mi ha regalato I miei luoghi oscuri, uno dei pochi libri di James Ellroy (scrittore che adoro) pubblicati dalla Bompiani, e sicuramente meno noto dei vari Dalia nera e LA Confidential della Mondadori.
Questo libro, però, è fondamentale per gli amanti di Ellroy, dal momento che si basa su un episodio autobiografico, deciso per la vita dello scrittore: l'omicidio della madre, trovata strangolata quando lui aveva 10 anni.
Scrivo fondamentale, perché a partire dal rapporto conflittuale con la figura materna, il piccolo James (anzi, allora si chiamava Leroy) si appassiona al mondo della criminalità, dei delitti irrisolti, del LAPD (la polizia di Los Angeles), che lo porteranno a scrivere i suoi bellissimi libri.
I miei luoghi oscuri ha una struttura molto ben congegnata: parte ripercorrendo l'indagine sull'omicidio di Geneva Hilliker Ellroy, con tanto di verbali, interrogatori, documenti. La prospettiva si sposta poi sul piccolo Ellroy, seguendo la sua infanzia e adolescenza. La terza parte si sofferma su Bob Stoner, investigatore, sulla sua vita e sui suoi casi, e infine l'ultima sezione arriva alla vicenda fondamentale: le indagini di Ellroy e Stoner sulla "rossa" (così Ellroy chiama sua madre), 35 anni dopo l'omicidio.
Ho trovato il libro innanzitutto molto commovente, nel descrivere questo rapporto tormentato, di amore e odio, fra lo scrittore e la madre. La componente autobiografica, poi, ha gettato una nuova luce sulle mie letture ellroyane precedenti (per la cronaca, i miei preferiti sono Clandestino, American tabloid e Sei pezzi da mille). Mi ha molto colpito la sincerità dello scrittore, che in diverse parti ammette di strumentalizzare il ricordo della madre per vendere i suoi libri. Lo dice con il suo solito stile, crudo, diretto, sincero, a volte volgare, spesso ironico.
Chiudo con un consiglio musicale: leggetelo con i sottofondo La cienega just smiled di Ryan Adams, dall'album Gold.
Buona lettura.

Una cara amica mi ha regalato un libro che lei adora, di uno scrittore fra i suoi preferiti: La confraternita dell'uva, di Fante.


John Fante, La confraternita dell'uva

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L'ho divorato, e mi sono innamorata anche io di questo autore. Di origini italiane, mi è sembrato molto legato alla nostra terra, anche incosciamente. La figura del padre (presente in tutti i suoi romanzi, tutti di impronta autobiografica), è geniale, e ben rappresentata. Me lo immagino, questo muratore abruzzese, che si trova al bar con gli amici a bere, imprecare, giocare a carte, ricordando la loro terra di origine.

Ho comprato poi The Bandini quartet, che raccoglie i quattro romanzi incentrati sulla figura di Bandini (il più famoso è Chiedi alla polvere). La prefazione di questa edizione americana è di Bukowsky, che ricorda l'importanza che Fante ha avuto sulla sua scrittura.

Non vedo l'ora di leggerlo.

Fante mi rende proprio orgogliosa.

Oggi vorrei parlare di un fumetto: V per Vendetta, scritto da Alan Moore e disegnato da David Lloyd, pubblicato in Italia da Rizzoli (fino al 30 aprile, al prezzo di lancio di 9,50 euro, quindi affrettatevi).
Proprio in questi giorni è uscito il film, che io ho visto, erroneamente, prima di aver letto il fumetto. Dico erroneamente, perché il film dei fratelli Wachowski è solo ispirato al testo, liberamente tratto, e, dal mio punto di vista, di più immediata comprensione e apprezzamento.
Nonostante ciò, l’idea e la storia di V per Vendetta è geniale. Scritto negli anni 80, ambientato in un vicino futuro immaginario, ma non troppo, della fine degli anni 90, esplicitamente ispirato a 1984 di Orwell e Fahrenheit 451 di Bradbury, è incentrato sulla figura di V, un geniale personaggio che combatte contro la dittatura che c’è in Gran Bretagna, una via di mezzo fra il Nazismo e il Grande Fratello di Orwell.
Mi ha particolarmente colpito, sia nel romanzo che al cinema, la dimora di V: vive nelle viscere di Londra, circondato da opere d’arte (quadri, libri, musica, opere cinematografiche) che la dittatura, guarda un po’, ha dichiarato illegali.
Fra colpi di scena, misteri, inquietudine e un po’ di angoscia, arriva, ovviamente, il lieto fine.
Ribadisco la buona realizzazione cinematografica, ambientata in un futuro 2020, con tanto di telegiornali che terrorizzano gli spettatori con influenza aviaria, guerre in Iraq, attentati terroristici in metropolitana…
Da rifletterci sopra.

E ovviamente… geniale l'idea del fumetto, che ben rende i toni cupi e angioscianti della storia.

Correre una maratona è _anche_ un’esperienza *filosofica*, come quelle *letture profonde* e ripetute che per alcuni momenti, fuggevoli, ti avvicinano alla consapevolezza, la conoscenza di sé e ti aiutano a capire il mondo.
L’allenamento di mesi, con ogni condizione meteo, e poi la gara, portano a una analoga condizione di consapevolezza. Domenica 26 marzo alla Maratona di Roma (la mia prima maratona), più o meno al 35 km di corsa, ne mancavano ancora sette (e 195 m), ero in crisi profonda, lo stomaco in subbuglio, il ritmo della corsa che calava progressivamente.

Ecco, in quel momento di sofferenza – può capire questa sofferenza solo chi ha fatto una maratona partendo dalle condizioni di persona normale, con un buon allenamento ma compatibile con una vita normale – mi ha soccorso l*’idea di consapevolezza*, così cara ai buddhisti ma anche a molti filosofi occidentali: dovevo correre stando con la mente completamente e solo nella corsa, attento e consapevole solo del momento vissuto, nessuna separazione tra corpo e mente.

Allora in quei sette chilometri non mi sono perso niente, dentro e fuori: consapevole di ogni passo, di ogni muscolo, di ogni dolore; guardavo le persone che incitavano al di là delle transenne, guardavo gli altri maratoneti sofferenti accanto a me o davanti. Una ragazza sgridava il suo compagno (di corsa? di vita?): “guarda che adesso ti lascia, la fatica se ne va, vedremo il traguardo fra pochi metri, non mollare”. Un signore si è fermato ad aiutare l’amico che una crisi a tre chilometri dall’arrivo lasciava lì per strada, fermo, piegato sulla schiena. I bicchieri di plastica dei rifornimenti per terra; l’uomo in canotta rossa davanti che lascia cadere la spugna bianca e tutto il resto che vi risparmio.

L’emozione di tagliare il traguardo al Colosseo non sono in grado di raccontarla: a pensarci, ancora adesso dopo cinque giorni, mi viene la pelle d’oca, non la dimenticherò mai. E’ comunque un’esperienza insieme fisica ed emotiva e di pensiero, un’idea che ha valore in sé, non relativamente a niente d’altro, salvo al fatto che è conseguenza di decine di migliaia di azioni e di pensieri ed è la condizione per altre decine di migliaia di azioni e di pensieri. Però ci sono momenti decisivi, più di altri.
E quel passaggio al Colosseo è uno di quelli (scusate l’enfasi ma se date un’occhiata alla mia faccia al passaggio del 40° km, a due dal traguardo, forse intuite cosa intendo dire – pettorale 9395)
Qui voglio *ringraziare i libri* (e i loro autori) che mi hanno aiutato a preparare e a correre la mia prima maratona; non sono in nessun tipo di ordine né cronologico di lettura né di importanza; alcuni li ho semplicemente ripresi e sfogliati e (ri)letti a pezzi. Se qualcuno è interessato (dubito) posso anche dare qualche motivazione sui legami dei libri con la corsa.

Romain Gary, La vita davanti a sé
Giulio Giorello, Di nessuna chiesa
Robert M. Pirsig. Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta
Stephen Batchelor, Buddhism without belief
Pankaj Mishra, La fine della sofferenza
Steve Hagen, Buddhism plain and simple
Anton Cechov, I racconti
Miguel Benasayag · Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi
Harrigel, Lo zen e il tiro con l’arco
Paul Ginsborg, Il tempo di cambiare
Robert Capa, Leggermente fuori fuoco
Jean-Claude Izzo, Marinai perduti
Cervantes, Don Chisciotte
Milan Kundera, Il Sipario
MIlan Kundera, I testamenti traditi


Sentiero del viandante

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L'improvviso arrivo della primavera mi ha fatto venir voglia di rileggere quello che, quando ero una bambina, era il mio libro preferito: Il giardino segreto, di Frances E. Hodgson Burnett.
Lo devo aver letto un sacco di volte, e con le mie cuginette abbiamo giocato più e più volte al giardino segreto…
Adoravo quel clima di mistero del libro, e soprattutto il legame così forte con la natura, l'importanza che assumeva nella vita dei bambini protagonisti del romanzo quel meraviglioso giardino. Mary, con la sua forza di volontà, lo faceva risorgere, e ogni volta mi commuovevo a pensare ai germogli e ai boccioli che rinascevano.
Ovviamente, non mancava una buona dose di tristezza e depressione: orfani, bambini ammalati, abbandonati, moribondi, parenti crudeli…
Ma sono ancora così i libri per bambini?

Ho finito di leggere Tre camere a Manhattan di Simenon. Dopo un primo impatto un po’ negativo, ho avuto un’ottima impressione del libro, che coglie così bene, sebbene scritto sessanta anni fa, la vita di oggi, la solitudine e lo smarrimento delle grandi città. Nonostante l’impronta cupa di fondo, mi ha lasciato una forte commozione e speranza sul finale.

Ma volevo sottolineare, soprattutto, una cosa che mi ha colpito. Fin da quando l’ho iniziato, mi ha richiamato alla mente il famoso quadro del geniale Hopper, Nighthawks (Nottambuli).

Nel quadro un uomo e una donna bevono, seduti al bancone di un bar, di notte. Il locale, fra l’altro, è proprio al Greenwich Village. Nel dipinto, si respira la stessa aria di solitudine e freddezza del romanzo, con una traccia di angoscia. Lo stesso Hopper, a proposito della sua opera ha detto: “Probabilmente inconsciamente ho dipinto la solitudine di una grande città”.

Mentre leggevo, mi immaginavo così Francois e Kay, nel loro vagabondaggio notturno per le vie di New York. Come l’uomo e la donna di Hopper, vicini ma all’apparenza distanti, persi nel vuoto, lo sguardo fisso di fronte e loro, due bicchieri sul bancone. Alle spalle, magari, un juke-box.

Fra l’altro, Nighthawks è del 1942, e quindi precede di qualche anno la stesura del romanzo. Mi piace pensare che anche Simenon abbia visto il quadro, e sia rimasto colpito, e che magari l’idea di Tre camere a Manhattan sia nata proprio da lì…

E per tornare al gioco delle colonne sonore, consiglio sicuramente Hit the switch di Bright Eyes (che per una di quelle stranissime coincidenze della vita sto ascoltando mentre scrivo, prima ancora di aver pensato all’associazione…).

Ho appena letto l’ultimo libro di Amelie Nothomb.

Confesso di essere una sua affezionata lettrice: l’anno scorso mi è capitato fra le mani, per caso, un suo libro, e mi ha subito conquistata. Per un certo periodo, ho divorato un volume dopo l’altro. Sono tutti romanzi brevi, in Italia pubblicati dalla Voland, e alcuni anche da Guanda. Ogni anno, puntuale, ne esce uno nuovo.

Della Nothomb mi piace il cinismo, il suo sguardo acuto e pungente, il suo sarcasmo e ironia.

Ha anche una storia molto interessante: belga, figlia di un diplomatico, è nata in Giappone, dove ha vissuto qualche anno, in Cina, Stati Uniti, Laos, Bangladesh. Fra i romanzi che mi sono piaciuti di più, quelli in cui ricorda la sua infanzia, come Metafisca dei tubi e Sabotaggio d’amore.

Quest’ultimo uscito da poco in libreria si chiama Acido solforico, e la storia è veramente agghiacciante.

Racconta di un reality show televisivo, Concentramento, il cui format richiama proprio quello dei campi di concentramento nazisti. Prigionieri che devono sopravvivere, aguzzini che li controllano, il pubblico (numerosissimo) da casa che decide la vita o la morte dei partecipanti con il televoto.

In questo clima surreale, emergono due figure di ragazze, una progioniera e un’aguzzina.

Lascio a voi la continuazione della storia.

Concludo esprimendo il mio ennesimo giudizio positivo dei confronti della Nothomb: a partire da una trama agghiacciante come questa, getta il suo sguardo ironico sul nostro mondo. E, a modo suo, coglie tante piccole verità.